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Inda, “LE TRAGEDIE” 2017

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by Amministratore
11/05/2017
Category:   Eventi

SI RINGRAZIA IL PROF. ELIO DI STEFANO (LICEO Classico “Majorana “di Avola) PER LA GENTILE CONCESSIONE DELL’ARTICOLO.

Foto della Dott.ssa Nella Barone

(nel ruolo di maschera nelle tragedie)

e di Mediterranehome.com staff.

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In scena quest’anno a Siracusa due drammi in qualche modo legati fra loro, in quanto entrambi si incentrano sulla saga tebana.

Le “Fenicie” euripidèe, tragedia della cui autenticità si è discusso a lungo, presuppongono chiaramente i “Sette a Tebe” di Eschilo e l’ “Antigone” di Sofocle, in quanto trattano tutte del mito dei Labdàcidi: tuttavia, la selezione del tema è in Euripide molto ampia, implicando molteplici fasi della saga in questione, con il conseguente problema di dover conciliare tanti punti di vista divergenti. Due le innovazioni più rilevanti rispetto al dramma eschileo, cioè la composizione del Coro e l’introduzione dei personaggi di Giocasta e Antigone: il primo in Euripide è costituito da schiave fenicie di passaggio a Tebe ma destinate al santuario di Delfi, e dunque estranee alla tragedia familiare che si consuma sotto i loro occhi, mentre in Eschilo è composto da fanciulle tebane, il cui grado di compartecipazione alla vicenda è pertanto, al contrario, elevatissimo. Giocasta, la madre dei due fratelli che si contendono il regno, assume il ruolo, del tutto inedito, di mediatrice senza successo nella lotta fratricida. Antigone si erge a garante del valore dei legami familiari. In entrambe le opere il focus dell’azione scenica converge verso la famiglia, che è rappresentata nella sua progressiva estinzione: i due fratelli soccombono entrambi nella lotta per il potere; Antigone, in Euripide, rinuncia alle nozze e va in esilio con il vecchio padre. Ne risulta indirettamente una forte valorizzazione degli affetti familiari, elemento-cardine del nuovo teatro tragico euripidèo rispetto alla tradizione del dramma attico che, ai tempi della nascente polis democratica, quando Eschilo scriveva, esaltava la guerra come fonte di gloria per il nome di Atene e dell’Ellade tutta, minuscola ma impavida trionfatrice sulle forze unite del Gran Re di Persia. Siamo agli albori del cinquantennio “aureo” di Pericle, che nella sua fase iniziale sfrutterà questi clamorosi successi come base propagandistica per il proprio governo.
Nei “Sette a Tebe” la dimensione eroica e l’etica aristocratica non solo sono ben presenti, ma dominano nel mondo valoriale dei nobili protagonisti. Il punto di vista dominante sulla scena in Eschilo è quello di Etèocle, tutto preso dall’esigenza di difendere la propria città dall’attacco degli Argivi, pieno a tal punto di slancio eroico da porsi egli stesso alla settima porta di Tebe, dove i nemici hanno piazzato il fratello Polinice. Lo scontro corpo a corpo dei due fratelli ha, in quest’ottica, tutto il sapore del coraggio a oltranza e dello sprezzo del pericolo, e il fratricidio passa in secondo piano, poiché si evidenzia il carattere nobile dello slancio di Eteocle.
Nelle “Fenicie” la molteplicità dei punti di vista corrisponde a “quella concezione policentrica dell’organismo drammatico” e a “un’idea del tragico come interazione fra comportamenti”, come ha giustamente scritto Guido Paduano, che porta a una prevalenza dei dialoghi sui monologhi, in quanto i primi tendono a spostare il fulcro della tensione dall’interiorità del singolo al confronto fra caratteri e personalità così diversi fra loro che nessun argomento, per giusto che sia, riesce a prevalere senza che se ne paghi il doloroso prezzo.
Due drammi che hanno per protagonisti uomini ma in cui, a ben vedere, sono le donne a giocare un ruolo fondamentale: alle donne tebane nel coro dei “Sette” e a Giocasta nelle “Fenicie” è affidato il delicato compito di riflettere sul senso ultimo dei fatti visti in scena. Esse, infatti, emarginate come sono dalla vita della polis, sono le uniche a poter conservare uno sguardo puro e imparziale che si sollevi dalla faziosità umana per guardare ai meccanismi della storia, che è permeata dall’azione divina, la quale scatena la sua ira fino all’inesorabile ristabilirsi di quell’equilibrio che è stato turbato-un equilibrio che può ristabilirsi solo passando attraverso la catena del sangue che chiama sangue. Ma i Labdàcidi sono anche una famiglia, un “ghenos”, e come tale hanno dei legami interni che sono affettivi ma anche “politici”, specie in età arcaica, quando ancora la lotta fra clan aristocratici è protagonista della politica cittadina. Nell’età di Euripide, invece, ampliatisi i confini della città e mescolatasi la sua popolazione in un melting pot tutto proteso verso il cosmopolitismo, si sfalda la compattezza della dimensione poliade che si era fondata sulla stretta unione fra politica e religione, e balza in primo piano la dimensione privata della vita, quella legata all’estrinsecarsi tutto umano di quell’individualità unica e irripetibile che è in ogni uomo: pertanto sono i sentimenti e la psicologia dei personaggi a dominare la scena di un dramma divenuto un po’ “borghese”. Ecco allora la figura di Giocasta, madre prima che regina, le cui parole rivelano questa preoccupazione per la sorte dei propri figli, e il cui ruolo è quello di una seppur impossibile mediazione fra i due, che fa leva proprio sulle ragioni del cuore, mettendo in secondo piano quelle del potere. All’attrice che impersonerà questa Giocasta, già peraltro anticipata nel monologo restituitoci dallo stesicoreo papiro di Lille, tocca il peso drammatico forse maggiore, di portare in scena il suo punto di vista di madre, prima e più del ruolo regale che riveste.

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Foto di Nella Barone

 


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